L'arianesimo è una dottrina cristologica elaborata dal presbitero, monaco e teologo Ario (256-336), condannata come eretica al primo concilio di Nicea (325). Tale dottrina sostiene che il Figlio di Dio sia un essere che partecipa della natura di Dio Padre, ma in modo inferiore e derivato, e che pertanto c'è stato un tempo in cui il Verbo di Dio ancora non esisteva e che egli sia stato creato da Dio all'inizio del tempo. Nei decenni in cui i teologi cristiani cominciavano ad elaborare la dottrina della Trinità divina, il presbitero alessandrino Ario (260 ca - 336) fu il massimo rappresentante di una delle interpretazioni della relazione tra le persone della Trinità, in particolar modo tra il Padre e il Figlio. Ario non negava la Trinità, ma subordinava il Figlio al Padre (subordinazionismo), negandone la consustanzialità che sarà poi formulata nel concilio di Nicea (325) nel credo niceno-costantinopolitano. Alla base della sua tesi, permeata della cultura neoplatonica tanto in voga nell'ambiente ellenistico egiziano, vi era la convinzione che Dio, principio unico, indivisibile, eterno e quindi ingenerato, non potesse condividere con altri la propria ousìa, cioè la propria essenza divina.

Di conseguenza il Figlio, in quanto “generato” e non eterno, non può partecipare della sua sostanza (negazione della consustanzialità), e quindi non può essere considerato Dio allo stesso modo del Padre (il quale è ingenerato, cioè aghènnetos archè), ma può al massimo esserne una creatura: certamente una creatura superiore, divina, ma finita (avente cioè un principio) e per questo diversa dal Padre, che è invece infinito. Padre e Figlio non possono dunque essere identici, e il Cristo può essere detto "Figlio di Dio" soltanto in considerazione della sua natura creata, e non di quella increata, posta allo stesso livello di quella del Padre. Così facendo, Ario non negava di per sé la Trinità, ma la considerava costituita da tre diverse persone (treis hypostaseis) caratterizzate da nature diverse.

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