Nel 499 a.C. la città di Fidenae, che alcuni sostengono fosse di origine latina, altri etrusca, fu assediata dai Romani.[56] Nel 438 a.C. la colonia romana di Fidenae, cacciò la guarnigione romana, e si alleò con i vicini etruschi di Veio, e successivamente con i Falisci e i Capenati, per contrastare i Romani; la guerra contro gli Etruschi e i loro alleati fu cruenta, e si risolse solo nel 437 a.C., con la presa e la distruzione della città. «Di lì le (truppe etrusche) costrinse a riparare nella città di Fidene che circondò con un vallo. Ma la città, alta e ben fortificata, non poteva essere presa nemmeno con l'uso di scale, e l'assedio non serviva a nulla perché il frumento precedentemente raccolto non solo bastava alle necessità interne, ma avanzava. Perduta così ogni speranza sia di espugnare la città, sia di costringerla alla resa, il dittatore - che conosceva benissimo quella zona per la sua vicinanza a Roma - ordinò di scavare una galleria verso la cittadella, partendo dalla parte opposta della città, che risultava essere la meno vigilata essendo già ben protetta dalla sua stessa configurazione naturale.

Poi, avanzando contro la città da punti diversissimi, dopo aver diviso in quattro gruppi le forze a disposizione - in maniera tale che ciascuno di essi potesse avvicendare l'altro durante la battaglia -, combattendo ininterrottamente giorno e notte il dittatore (Quinto Servilio Prisco Fidenate) riuscì a distrarre l'attenzione dei nemici dallo scavo. Finché, scavato tutto il monte, fu aperto un passaggio dal campo alla cittadella. E mentre gli Etruschi continuavano a concentrarsi su vane minacce, senza rendersi conto del vero pericolo, l'urlo dei nemici sopra le loro teste fece loro capire che la città era stata presa.»
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, IV, 22.)

Secondo il racconto di Livio, nel 479 a.C., l'influente Gens Fabia ottenne dal senato il permesso di accollarsi completamente lo sforzo bellico contro Veio: fu armata una forza di trecentosei uomini, tutti appartenenti alla famiglia (più probabilmente, i Fabii fornirono solo la cavalleria di un esercito più consistente, in cui i loro clientes costituivano la turma della fanteria). Per due anni i Fabii rimasero in territorio veiente, sconfiggendo a loro piacimento gli Etruschi. Questi, allora, cominciarono a far credere di essere più deboli di quanto non fossero: rendevano deserto parte del territorio per simulare una maggiore paura dei loro contadini; lasciarono libero parte del bestiame per far credere che fosse stato abbandonato in una fuga precipitosa; fecero arretrare le truppe mandate a contrastare le incursioni. I continui successi resero i Fabii supponenti e imprudenti: usciti dall'accampamento, si diedero al saccheggio e caddero in un'imboscata nemica presso il fiume Crèmera, un piccolo affluente di sinistra del Tevere. I Fabii furono sopraffatti e massacrati (477 a.C.). Di tutta la gens rimase in vita un solo componente: Quinto, figlio di Marco. Livio riporta che era stato lasciato a Roma perché troppo giovane, ma l'informazione non sembra del tutto veritiera se consideriamo che solo dieci anni dopo, Quinto Fabio Vibulano divenne console.

Nel 426 a.C., anche in conseguenza della vittoria veiente contro l'esercito romano condotto dai tribuni militari Tito Quinzio Peno Cincinnato, Gaio Furio Pacilo Fuso e Marco Postumio Albino Regillense, ottenuta ad inizio dell'anno, Fidene iniziò un nuovo conflitto contro Roma, uccidendo i coloni romani mandati sul suo territorio; ai fidenati si allearono i veienti e così si giunse ad una nuova battaglia, combattuta sotto le mura delle città. Lo scontro fu durissimo, ma alla fine i romani ebbero la meglio, presero la città, e ne ridussero gli abitanti in schiavitù.

Nel 396 a.C. dopo una guerra durata quasi un decennio, Roma conquistava Veio, estendendo la sua influenza su parte dell'Etruria meridionale. Le guerre tra Roma e Veio erano state una costante della storia del Lazio antico a partire dall'VIII secolo a.C.. Fin dalla sua mitica fondazione ad opera di Romolo, Roma ebbe un nemico temibile e determinato nella città etrusca. Le motivazioni dell'inimicizia secolare fra l'Urbe e Veio furono di tipo economico, dove la ricchezza di una significò la povertà dell'altra. Di quest'ultima e determinante guerra sappiamo che il dittatore romano, Marco Furio Camillo, alla presenza delle truppe (e della popolazione), pregò Apollo (il dio della Pizia di Delfi) e Giunone Regina, la protettrice di Veio:
Mappa della città di Veio.

Apollo di Veio
(LA)

«Pythice Apollo, tuoque numine instinctus pergo ad delendam urbem Veios, tibique hinc decimam partem praedae voveo. Te simul, Iumo regina, quae nunc Veios colis, precor, ut nos victores in nostram tuamque mox futuram urbem sequare, ubi te dignum amplitudine tua templum accipiat.»
(IT)

«Sotto la tua guida, Apollo Pitico, e stimolato dalla tua volontà, mi accingo a distruggere Veio e faccio voto di consacrare a te la decima parte del bottino. E insieme prego te Giunone Regina che ora siedi in Veio, di seguire noi vincitori nella nostra città che presto diventerà anche la tua perché lì ti accoglierà un tempio degno della tua grandezza.»
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, V, 25; Newton Compton, Roma, trad.: G.D. Mazzocato)

Roma era pronta per lo sforzo finale; aveva predisposto un esercito forte e motivato, aveva nominato un dittatore che poteva concentrare in un unico punto lo sforzo bellico. Camillo ordinò l'assalto alle mura con il maggior numero di uomini possibile:
(LA)

«Veientes ignari se iam a suis vatibus, iam ab externis oraculis proditos, iam in partem praedae suae vocatos deos, alios votis ex urbe sua evocatos hostium templa novasque sedes spectare, seque ultimum illum diem agere.»
(IT)

«I Veienti ignoravano di essere stati consegnati al nemico dai propri vati e dagli oracoli stranieri, ignoravano che gli dèi erano stati chiamati a spartire il bottino, ignoravano che qualche dio era stato chiamato fuori da Veio dalle preghiere romane e già guardava i templi dei nemici e le nuove sedi, ignoravano che quello era il loro ultimo giorno.»
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, V, 25; Newton Compton, Roma, trad.: G.D. Mazzocato)

Gli dèi abbandonarono Veio e Livio stesso ammette che qui il racconto diviene leggendario, fabula. Dopo giorni e giorni in cui gli assalti romani erano stati sospesi, con sommo stupore degli etruschi, il re di Veio stava celebrando un sacrificio nel tempio di Giunone quando gli assaltatori romani, che avevano quasi terminato lo scavo e attendevano di abbattere l'ultimo diaframma, udirono il presagio dell'aruspice etrusco: la vittoria sarebbe andata a chi avesse tagliato le viscere di quella vittima. I soldati romani uscirono dal cunicolo, iniziarono l'attacco e, prese le viscere, le portarono al loro dittatore. Nello stesso tempo fu sferrato l'attacco generale di tutte le forze romane contro i difensori delle mura. Così, mentre tutti accorrevano sui bastioni,
(LA)

«armatos repente edidit, et pars averso in muris invadunt hostes, pars claustra portarum revellunt, pars cum ex tectis saxa tegulaeque a mulieribus ac servitiis iacerentur, inferunt ignes. Clamor omnia variis terrentium ac paventium vocibus mixto mulierorum ac puerorum ploratu complet.»
(IT)

«Gli armati sbucarono nel tempio di Giunone che sorgeva sulla rocca di Veio: una parte aggredì i nemici che si erano riversati sulle mura, una parte tolse il serrame alle porte, una parte diede fuoco alle case dai cui tetti donne e schiavi scagliavano sassi e tegole. Ovunque risuonarono le grida miste al pianto delle donne e dei fanciulli, di chi spargeva terrore e di chi il terrore subiva.»
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, V, 21; Newton Compton, Roma, trad.: G.D. Mazzocato)

In una pausa dei combattimenti Camillo ordinò, per mezzo di banditori, di risparmiare chi non portava armi. Il massacro si arrestò e si scatenò il saccheggio. Veio era caduta definitivamente in mano romana.

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